Il rapporto tra la Chiesa sarda e la politica

5 settembre 2008

di Filippo Peretti

CAGLIARI. Si racconta che Paolo De Magistris, cattolico fervente e non certo uomo di potere, nel 1985 si sia fatto rieleggere sindaco di Cagliari perché, dopo Paolo VI nel 1970, con la fascia tricolore voleva ricevere anche Giovanni Paolo II. Una debolezza umana unita al desiderio di assicurare al Santo Padre l’accoglienza più adeguata. Oggi che nella vita pubblica ciò che più conta è l’apparire, l’interesse dei governanti per l’arrivo di Benedetto XVI forse non è dettato solo dalla fede. E la corsa a essere il primo della fila assume altri significati per i vari protagonisti: dal sindaco Emilio Floris, possibile leader del Pdl nel 2009 e nominato in extremis commissario straordinario dell’evento; a Renato Soru, che in questa occasione non ha esitato ad aprire la borsa del bilancio regionale; sino a Silvio Berlusconi, la cui annunciata presenza (fatto più unico che raro per un premier fuori dalla capitale) serve probabilmente a mettere in ombra il presidente della Regione a meno di un anno dalle elezioni.

I giochini e le passerelle saranno pure inevitabili e comprensibili, ma non aiutano a comprendere il rapporto tra il Potere politico e la Chiesa sarda. Un rapporto che ha contribuito a fare la storia, anche recente, dell’isola e che negli ultimi tempi - al di là di questa mobilitazione per papa Ratzinger - è andato affievolendosi, tanto che si può affermare che oggi è quasi esclusivamente limitato agli aspetti istituzionali, burocratici e utilitaristici.

Paragoni con il passato lontano sono azzardati. Lo storico della Chiesa sarda, il padre gesuita Raimondo Turtas, ha scritto che sino a quando è durato l’«ancien régime» è durata anche l’alleanza fra Trono e Altare con reciproca soddisfazione e lealtà. Una sorta di separazione di competenze allora assegnava al Clero, pur condizionato e controllato dai regnanti, un peso straordinario nella società: vescovi, sacerdoti e ordini religiosi non pensavano solo a dir messa ma fondavano e gestivano università, ospedali e istituzioni benefiche e consolidavano così il legame con il popolo. Un legame tanto forte che nell’ultimo decennio del Settecento la resistenza all’assalto francese si svolse non solo in difesa della patria ma anche al grido di «guerra ai senza Dio» e che nella rivolta contro il Palazzo gli unici piemontesi a non essere cacciati furono i preti.

Quella di oggi è, ovviamente, una situazione molto diversa soprattutto rispetto al vero e proprio conflitto dei primi decenni del Regno d’Italia. La Chiesa si impoverì di compiti e di soldi (fu privata di molti beni e le «congrue», aggiornate nel 1855, furono adeguate solo dopo la prima guerra mondiale) ma non venne isolata dai fedeli: anzi, la comune povertà rafforzò l’antico feeling tra i religiosi e il popolo sardo.

La storia è piena di eccezioni e ci dice che all’interno del Clero isolano non c’è mai stata omogeneità di vedute né sugli affari interni né nel dialogo con l’esterno. Come durante il fascismo: nonostante il clima più favorevole dopo il Concordato, ad esempio, il vescovo di Nuoro, Cogoni, si rifiutò di allinearsi al regime e poi altri vescovi presero le distanze dalle leggi razziali, anche se con prudenza.

Il rapporto della Chiesa con la politica sarda è cambiato del tutto con la caduta del regime mussoliniano e con l’impetuoso interventismo dei cattolici in politica. E a fianco delle correnti partitiche ne sorsero anche nelle diocesi. A partire dalle prime mosse, nel 1943, per la nascita della Democrazia cristiana, alla quale collabororono attivamente diversi vescovi selezionando i futuri dirigenti per imporre la soluzione del partito cattolico (quindi clericale) o viceversa quella del partito dei cattolici (quindi per la laicità dello Stato). Una divisione che è durata decenni con scontri anche aspri e che, alla lunga, si sono risolti a favore dei progressisti. E’ il periodo d’oro - e forse più nobile - dell’impegno dei cattolici in politica. E’ il periodo che portò alla rivoluzione dei «giovani turchi», a Sassari, contro l’apparato che faceva riferimento al potente futuro inquilino del Quirinale Antonio Segni, che poi quasi favorì l’emergere dei nuovi quadri. C’è chi sostiene che senza le idee e l’impegno del vescovo Arcangelo Mazzotti (uno che incitava i suoi sacerdoti a sostenere le lotte dei contadini che occupavano le terre incolte) e la dedizione di don Enea Selis il gruppo di Francesco Cossiga e di cui facevano parte, tra gli altri, Paolo Dettori, Nino Giagu De Martini, Pietro Soddu e Beppe Pisanu, non sarebbe nato o comunque avrebbe avuto altre caratteristiche.



In una fase che, a Cagliari, era ben diversa: qui l’arcivescovo Paolo Botto appoggiava i conservatori di Raffaele Garzia e osteggiava i giovani della Fuci che facevano riferimento alle tesi di Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, e che avrebbero formato la locale corrente morotea: Ernesto Dessì, Lello Picciau e poi Pinuccio Serra. In questo fermento, ci fu poi, dopo un decennio, la rivoluzione dei «giamburrasca» a Nuoro (decisiva per il prevalere delle correnti progressiste a livello regionale) con l’avvento, tra gli altri, di Ariuccio Carta e Angelo Rojch, anch’essi sostenuti dai vertici della Chiesa locale. Sono anni in cui la Chiesa nel suo complesso si preoccupava soprattutto non di dettare ma di incidere nelle scelte politiche regionali e di formare i dirigenti: sono chiari esempi di questo impegno prima il centro della Madonnina a Santulussurgiu, fondato da Enea Selis, e poi la Scuola di fede e coscienza politica, a Cagliari, fondata (ma oggi chiusa, forse non a caso) dall’allora arcivescovo Ottorino Alberti «per dare un supplemento d’anima alla politica» e diretta da don Vasco Paradisi e nella quale teneva lezioni, tra gli altri, il futuro presidente progressista della Regione Federico Palomba.

Sono pagine che, alla luce degli avvenimenti dell’oggi, sembrano ancora più lontane. Impegnata in campo nazionale nelle battaglie etiche (il primato della vita, il matrimonio, la famiglia, eccetera), infatti, la Chiesa in Sardegna appare oggi come estranea ai dibattiti politici. Basti pensare che sono esattamente vent’anni che la conferenza episcopale sarda non diffonde una lettera pastorale collettiva sui problemi dell’isola. O dieci anni dall’ultima polemica provocata, per iniziativa di Paolo Maninchedda, da diversi sacerdoti di frontiera ansioni di avere un vertice più attento ai temi sociali.

Sia chiaro. Una Chiesa estranea dal dibattito politico ma non assente in politica. Anche se in forme diverse dopo la fine della Dc, vescovi, parroci e suore partecipanoe alle campagna elettorale, ma per appoggiare non tanto questo o quel partito quanto questo o quel candidato a loro vicino. Una Chiesa che non fa documenti ufficiali, ma che comunque non trascura i problemi sociali, confermando l’antica vocazione di solidarietà agli ultimi e ai lavoratori in difficoltà: è emblematico il ruolo della Pastorale del lavoro guidata da don Pietro Borrotzu, molto legato ai sindacati e alle associazioni cattoliche; è significativo l’impegno a favore dei sofferenti garantito da religiosi del calibro di padre Morittu o Ettore Cannavera e da numerosi parroci che fanno meno notizia.
(da La Nuova Sardegna)